lunedì 31 gennaio 2011

Donatella. Seconda parte.


Nelle precedenti puntate di Donatella: Saverio, precario quarantenne in cerca di sè stesso e di un'altra, vive con universitari cannabinomani. Troverà l'amore, o solo una denuncia a piede libero?
A qualche centinaio di metri...



Carburant of Love

"Chissà, domani, su che cosa metteremo le mani."

Lo ripete più d’una volta, al titolare, il tizio con la semicresta dietro al bancone del carrozziere dove ho portato la mia twingo. Mi sono ritrovato una specie di rettile inciso con un punteruolo sul tratto di lamiera finto-metallizzata che va dal buco per la benzina alla luce della freccia. Chi lo ha fatto ha anche sentito il bisogno di dare una sinuosità al serpentello, se no che opera d’arte è? Si, ma è giusto, facciamoli sfogare questi writer. Sicuramente l’autore anguimane del graffito sulla mia renault avrà avuto dei problemi a casa. Bene, è ora che raddoppino  questi problemi, imbecille. Per le dame vincenziane di San Martino di Castrozza, ma che ti ha fatto la mia macchina? Ma l’hai vista? Verde sanitari di Tirana, ruotino montato da 3.000 km, antenna spezzata. Ora che hai sfogato il tuo disagio con la società moderna che non ti permette di ricaricare il tuo iphone per più di 30 euro al mese, fammi il favore di andare a trovarti un lavoro. Per te ho in mente quello degli attori che fanno gli starnuti, nei servizi del tg sull’influenza di stagione: “ascoltiamo ora i consigli dei medici per non ammalarsi: mettere abiti pesanti, preferire ambienti caldi ad altri meno salubri e freddi ”.

Comunque, fanno 150 euri, senza fattura, of course. La semicresta con mezza diana blu al lato della bocca butta un occhio al mio cruscotto. Cerca qualcosa, un segno evidente del mio status. Vede una cartina dell’Argentina sottolineata col rosso e un cd dei Cccp, e mi domanda chi siano. Gli dico che sono un coro polifonico della Val di Susa, che si sarebbero esibite in parrocchia nel fine settimana. Gli chiedo un’offerta per le sorelle. In un attimo lo vedo dileguarsi sul califfone d’ordinanza, senza casco, con la cenere incandescente della cicca che svolazza tra i capelli festosamente lerci dall’epoca di Gundam.

Lascio la carcassa della mia twingo al ricettatore del sannio e mi avvio a piedi alla fermata del bus più vicina. Non ho neanche una sigaretta, quando mi serve. Sarà perché ho smesso di fumare da 4 mesi, ma sento il bisogno di accenderne una ogni qualvolta mi sta per accadere qualcosa. È un sesto senso abbastanza particolare. I polmoni mi avvisano. Ho un corpo in balìa della nicotina e della paranoia. E dei peli di gatto.

“ehi, tu!”. Eccola lì. Non mi giro. “ehi, scusa?”. Devo resistere. “tu, con la giacca beige!”. Saverio, non ti voltare. Continua per la tua strada. Perderai il bus, arriverai ancora più tardi al capannone. Il signor Camillo ti parlerà ancora una volta dello Statuto dei Lavoratori, del rispetto per i colleghi, dei patti parasindacali. Il tutto anche comprensibile, ma condito da un aroma di stravecchio e cubano che rimarginerebbe i tagli del Fontana. “tu, con la tracolla!”. Mi giro. Lo faccio perché è la voce di una donna. So che è un’aggravante, ma scelgo la galanteria al sicuro ingarbugliarsi della matassa. “scusa, hai un cellulare? Il mio si è scaricato, nel gabbiotto il telefono non c’è, e ho da fare una chiamata importante.”

Era la ragazza della Q8. Lei parlava e io osservavo quanto potesse essere sessualmente attraente un corpo di donna in stato di grazia, versato in una divisa da benzinaio, sporca, ingrassata, al retrogusto chimico di ottani. Parla con un certo Davide, discutono, lei lo manda affanculo, lui ci va. “ma non dovevi portarmi alla Sagra del Cervo Raggomitolato di Cerchi di Sopra, pezzo di melma?”. Poi lei riattacca e mi rende il cellulare, unto come Gianni De Michelis dopo il Midas. Le piacciono le feste di paese. Siamo gemelli cosmici, direbbe scorpione violaceo su scapola, un ventenne di Macerata iscritto ad Agraria che non sa fare le divisioni a mano ma si sa infilare uno spaghetto nel naso e farlo uscire dall’occhio. Non so se lo siamo davvero, ma non se ne trovano tante, così, in giro. Guarda per alcuni secondi nel vuoto. Si gira verso di me, mi guarda le scarpe, le mani. Allunga la mano: “Giada, Giada Manerbi.”. io annuisco. “Hai un nome, annuitore dalle adidas verdi?”, mi fa.
“Obiettivamente si”, faccio io. “ mi chiamo Saverio”. “Obiettivamente?” fa lei, e scoppia a ridere. Si allontana perché un rompicoglioni con una ritmo suona il clacson tre volte. Ne fanno ancora. Di rompicoglioni sulle ritmo, dico. Mi saluta da lontano con la mano inguantata. “Ciao, obiettivamente!” e giù a ridere. Cazzo, quanto è bella.

Dopo pochi minuti, mi arriva un sms sul cellulare. “Ti amo. Ti passo a prendere alle 20 per andare alla Sagra. Tuo Davide.”. Rispondo “Fottiti. Tua Giada”. Vacci da solo alla Sagra del Cervo.

Intanto, a pochi metri.  =>

sabato 29 gennaio 2011

Breaking News

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Un matrimonio felice e solido aumenta i benefici fisici e mentali dei partner, migliora l’umore e favorisce il benessere fisico. In poche parole, un’unione sana allunga la vita. Lo dice uno studio dei sempre puntuali ricercatori dell’Università di Cardiff.

Quindi, 
io sottoscritto Ettore Aldimari, nato di sabato per volontà degli dei, evidentemente prossimo alla dipartita per volontà della perfida albione, in pieno possesso delle mie facoltà mentali, dispongo del mio patrimonio, come segue: desidero lasciare in eredità i beni sottoelencati all’Associazione Italiana Bambini Con La Sciagura Di Avere Il Nome Di Un Personaggio Famoso Per Giunta Scritto Male (da ora in poi A.I.B.C.L.S.D.A.I.N.D.U.P.F.P.G.S.M.) e nello specifico:

- al piccolo Rig, lascio la mia collezione di foto di divani e sedie ancora incellophanati che ho raccolto durante tutta la mia vita in giro per il mondo, nelle case di tante madri di famiglia, che mi chiedevano se gradissi un caffè ed io dicevo di preferire dell’ovomaltina.







- al grazioso Ciarli, lascio il mio Quaderno del Disprezzo, realizzato a mano nel 1993, nel quale elencavo in rigoroso disordine alfabetico persone, luoghi, eventi con l’indicazione precisa delle mie sensazioni ed una serie di insulti sempre diversi l’uno dall’altro.






- al dolce Chevin, lascio le enciclopedie per bambini acquistate negli anni ’80, quelle a carattere 18, con le foto di 50 anni prima, con le informazioni ridotte all’osso, la carta finto patinata, che ci hanno venduto durante memorabili riunioni di domenica mattina nella sala grande di un hotel, attirati lì con la promessa di poter vincere un computer 12 kb a nafta.





- alla simpatica Bruk, andranno le risme di carta carbone mai usata; i 25 floppy disc imballati; l’attrezzo ellissoidale per avere addominali saldi e vigorosi; la pistola sparachiodi; l’elettrostimolatore studiato per garantire rapidi risultati quali, ad esempio, una formazione cistica hic et nunc; la rastrelliera Ikea; i tappetini per lo yoga, insomma tutto quello che abbiamo acquistato per tirare su il P.I.L., senza nulla a pretendere.





- ed infine, agli impareggiabili fratellini Bred e Gionni, lascio questo blog, semi nuovo, in buono stato, pochissimi chilometri, con ripostiglio da oltre 365 post all’anno, ben frequentato solo da referenziati, no amanti del piede, ottimi commenti, appena ristrutturato, password mnemonicamente semplice da assorbire, dotato di tutti i comfort, prestigiosi link, termoautonomo.

Ma anche no.

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martedì 25 gennaio 2011

Saloon Doors

 
Questo post non ci doveva essere. O poteva non esserci.

Stamattina, a seguito di uno sciagurato uno/due di caffè equo e solidarnosc di dubbia provenienza, cremoso dal sapore antiacido, l'intenzione era di sviscerare qualche parola sulla telefonata di un porco vecchio ad una trasmissione televisiva. Ma non avevo parole adatte, e poi non mi andava di ammettere che l'opinione pubica è comunque d'accordo, rintronata e rintronista, abbagliata e analbagliata, anti e pro, nascosta dietro la coltre degli indecisi che aspetta solo l'ennesimo scandalo per urlare disappunto e farsi i cazzi propri, a sanatoria, in secula seculorum. Le colleghe mi hanno chiesto cosa ne pensavo, e mi sono limitato a dire che avevo notato in alcune di loro delle vistose doppie punte. In un attimo la mia stanza si è svuotata, e, come i tentacoli del polpo, si sono sparpagliate, queste 5 meduse, ognuna impegnata, a costo di perdere cristallino e retina, a scovare l'improbabile microfrattura sul fusto del capello. Almeno, per un paio di ore, le avrei tenute impegnate.

In pausa, salto al centro commerciale ad ingoiare una festosa brodaglia cotta in tempura dalla figlia di Andrè the Giant per poi tornare al mio Acer, travolto dall'aroma di tonersamsung ed Eternity Calvin Klein che si respira al lavoro. Non prima di fare una capatina alla toilette del Centro. Ed eccotela.
L'ingresso è quadruplo: uomini, donne, neonati, disabili. Manca il bagno per amanti del piede, emo, andati, rassegnati, soddisfatti, apolidi.
All'esterno della porta “Uomini” è impalato un filippino. Lo noto perchè sembra un cartonato, e perchè ha dei baffetti che paiono posticci. Ha i vestiti del medesimo colore della pelle. Apro la porta da saloon con una spallata decisa, ed entro. Mi segue. Scelgo, come sempre, il bagno a muro. Intravedo che si piazza alle mie spalle, a circa 2 metri. Scribacchia qualcosa sul telefono. Si accorge che l'ho notato, ed entra in uno dei mille bagni presenti. Termino, ed esco a passo accelerato, testa bassa, frugando nelle tasche alla ricerca di un po' di acesulfame da passeggio, mentre gli altoparlanti del supermercato passano Lady Gaga. Allora non me ne va bene una. Cazzo, le mani. Ritorno indietro, di nuovo a testa bassa, mentre l'urlo cadenzato di una mamma in chiaro iperestrogenismo deturpa l'udito di un minore indifeso. Incrocio di nuovo il brevilineo asiatico col completino di renna che esce spingendo il battente della porta. Lo passo, lui avanza di qualche iarda, poi frena. Visibilmente in difficoltà, quasi braccato, alle prese con questo Tommy Lee Jones decurtato di fascino, centimetri e ghigno, mi lavo le mani. Mentre mi avvicino al bocchettone dell'aria calda, me lo ritrovo a un metro, stavolta di fianco. “Che c'è?”, gli faccio, accodandomi all'usanza di rivolgersi con il tu all'interlocutore, se questo è extracomunitario. Fa “Niente”, con la testa e mi indica il bocchettone con le mani ancora fradicie. Forse ho equivocato. Sarà l'aria che si respira. Doveva solo scrivere un sms, doveva solo lavarsi le mani, del resto anch'io, poi etc.etc.

Esco. Mentre sorrido, penso al filippino a frange, alle scarpe di Imelda Marcos, alle porte a spinta, ai luoghi comuni, ai bar sport, che roba contessa, alle maggioranze silenziose, alle distorsioni della realtà, a piazzale loreto, alla madonna di loreto. La mamma che urlava, ora accarezza la guancia del piccolo audioleso. Dai, non tutto è perduto. Salgo in sella allo scooter e parto. 
E inizia a piovere.

sabato 22 gennaio 2011

Citofonare Emix


In questo weekend, causa lavori in cartongesso alla cavità cranica (la camera degli ospiti è occupata dalle ricevute che non ci riceviamo mai da: la psicologa, il dentista, il ginecologo, il muratore), sono ospite di Drink!, il primo blog videoludico in cui scrivono anche persone che non sanno cosa significa videoludico. 

mercoledì 19 gennaio 2011

Nell'ottica di un rapporto complicato



La terapia di coppia funziona.  Ad esempio la nostra terapista è sempre più ricca.
Oggi mi guardava con l’aria severa. Era la mia prima volta. Poi ha sorriso. Infine ha riso. Ha riso di gusto. Ad un tratto a crepapelle. Può un uomo in piena crisi matrimoniale, ai limiti della dispnea, quando manco i broncodilatatori della pazienza sembrano utili alla causa, scatenare in una psicologa un irrefrenabile attacco di sane risate? L’ho constatato. Può.
La prossima volta mi faccio pagare. O almeno andiamo a pari, dio freudiano.
La professionista, dietro cui campeggiava il diploma di laurea, senza infamia e senza lode, sedeva composta sulla sua poltroncina. Indossava una maglietta rosa pallido, in tinta con i miei bioritmi, un paio di jeans stretti che lasciavano comunque spazio all’immaginazione, delle scarpette scamosciate sul rosso. Il tutto sarebbe passato inosservato in una visione d’insieme, se non ci fossero stati un paio di occhiali. Occhialoni, ad onor del vero. Mi sono perso qualche passaggio nel furibondo mondo della moda glasses. Da quando ho disdetto l’abbonamento a Vogue non sto più al passo coi tempi. Mi aiutavano anche le prime 340 pagine dell’Espresso, a capire cos’è In e cos’è Out, in fatto di occhiali da vista indossati da modelli, la cui espressione faceva capire che gli occhiali servivano a loro come ad Henry Kissinger serve l’ultimo album di Marco Carta.
Trattavasi di occhialoni a montatura plastica asimmetrica – diametro 10cm, mod. “potrei avere financo gli occhi di Candy Candy”. Pagati, immagino, un occhio della testa, anch’esso enorme.

Non mi convinci, dottoressa, con questi occhialoni. Aspetto da un momento all’altro che tu mi dica che non hai mai provato Urrà. Dimmelo, stronza. Diamo un senso a questo mio monologo alla Woody Allen. Fammi leggere tutti i tuoi appunti e scommetto che hai solo disegnato la disposizione dei mobili nel tuo salotto Bois et Chiffons. Penso che gli occhialoni non ti servano neanche a vederci meglio, ma siano un vezzo per mostrare un’età che non hai. Ma io la riconosco dalle pieghe del collo e dalle mani. Sono il tuo carbonio-14.

Ci ho messo anni per togliermeli, io, gli occhiali. Quando, a 11 anni, l’oculista mi diagnosticò la miopia, fu un vero dramma. Quando, 2 mesi dopo, il dentista mi prescrisse l’apparecchio ortodontico, cercai motivi per vivere. Provai ad indossare una personalità alla Kerouac ed una pettinatura alla Nick Kamen, ma sembravo l’idiota scartato al provino della Bauli.
Poi, qualche anno più tardi, Lucio mi assicurò che le lenti a contatto erano facili da indossare, comode, stupefacenti, insomma una svolta. Papà mi accompagnò dall’optometrista, una specie di montagna umana che di lì a poco sarebbe stato sorpreso dalla moglie a fare una approfondita visita alla commessa del vicino supermarket.

Entrammo nell’ottica, e dopo una breve chiacchierata sui massimi sistemi, in fatto di totocalcio, tra mio padre e l’omone, grazie ad un lentissimo ascensore ci spostammo nel laboratorio sotterraneo. Già il fatto di scendere sotto il livello del mare non aiutò la mia tipica ansia da novità. Le palpitazioni aumentavano, ma il non dover sfoggiare più quei pesanti ed insindacabili correggi vista in ferro dorato e vetro plumbeo oleoso, faceva pendere la bilancia sul piatto dell’atto coraggioso. Mi fece sedere su una scomoda sediolona presa in prestito da qualche barbiere e si voltò di spalle, alla ricerca della “lente prova” più adatta per il mio occhio. Credo non ascoltò neanche il mio timido “posso fare da solo”, e con una mano extralarge mi aprì le palpebre quasi a voler controllare, da lì, lo stato della mia laringe. Intanto, l’altra mano, in possesso di dita onestamente definibili come impropri dildi senza polifosfati, portava la lentina verso la mia pupilla. Lo scansai, senza risultati apprezzabili. L’ottico avanzava. Io allontanavo la mano, digrignando i denti, implorando pietà. L’omone non si curava del maschio ansimante, del pallore crescente, della fronte madida. Insisteva, quasi come stesse a cercare di rificcare le venti sigarette nel pacchetto. Insisteva, imprecava, spingeva, allargava la mia palpebra all’estremo, sentivo la pelle che si strappava quasi, i capillari straniti. Ero bloccato. Papà osservava da lontano, ma non capiva cosa stesse accadendo. Ero in trappola. Dovevo difendermi in qualche modo. Lo feci, ma poi non ebbi il tempo di spiegare. 

Quando il corpo rifiuta qualcosa, lo espelle. La lente non era ancora entrata, altrimenti avrei espulso lei. La colazione, invece, mi era entrata mezz’ora prima in corpo. E tale e quale, ne uscì, lì, mentre la falange armata di un ottico stronzo cercava di forzare col piede di porco il mio occhio serrato a doppia mandata. Non controllai nulla, non ne ebbi il tempo. Senza avere cura di nessun ottico, laboratorio, tappezzeria, dito, volto. Mio padre mi guardava come si guarda la propria auto che, senza freno a mano, vola giù dal dirupo insieme alle 36 rate che vi restano da pagare, scolpendosi in tutte le rocce. Non le presi, allora, le lenti. Ci allontanammo mentre qualcuno cercava sulle pagine gialle un posto vicino dove comprare della segatura.

In macchina nessuno parlò.

lunedì 17 gennaio 2011

Donatella


Case, libri, auto, viaggi e fogli di giornale. Sono le cose che si è ripresa la banca l’anno scorso.

Mi chiamo Saverio. Sul cognome al momento preferirei glissare. Sono nato verso la fine del 1975. Nove mesi prima i miei ascoltavano Lampada Osram di Baglioni. Probabilmente nell'inquietudine di chi cerca di capire il testo di una canzone, si sono distratti un attimo. Perchè un figlio loro non lo volevano. A dire il vero credo non si amassero neanche. Sono figlio dell'indifferenza. E di una canzone stronza.
Sono alto, longilineo, stempiato, occhi neri. A prima vista insignificante. Risulto essere simpatico e socievole, ma non faccio leva sull'aspetto fisico, benchè non abbia nulla da invidiare a chi mi circonda. A meno che chi mi circonda non sia passabile.

Ho una laurea in scienze psicologiche, triennale presa in 6 anni, che oggi mi dà la possibilità di fare il fattorino part-time in un capannone in periferia. La mia preparazione sulle teorie di Piaget non è che mi serva molto al cospetto di balle di tessuto damascato, che scarico da bisarche tappezzate di “la preghiera è luce. la bestemmia è tenebre”, ma gli autisti sloveni inzuppati di sano sudore post-cortina di ferro mi confidano tutti i loro problemi con massima fiducia. Si dice tako zaupanje. Massima fiducia in sloveno, intendo. Passiamo i tessuti ai façonisti della zona, tra cui un brevilineo cocainomane di Matera, che non manca mai di ricordarmi quanto io sia stato stronzo a perdere tempo sui libri, mentre lui grazie allo zio notaio e ai fondi fas “ce l'ha messo nel culo al mondo”.
Sono intollerante alle punture d'ape, al contatto epidermico col velluto, al contatto epidemiologico con gli albini, alla visione di Giorgio Albertazzi. Sono miope, ma solo all'occhio destro. Odio la musica trance, i carciofi e windows. Amo la progressive anni'70, le alici marinate, le unghie curate e le feste patronali a base di musica dodecafonica.

Ogni volta che riesco a mettere due spiccioli da parte, parto, destinazione Ande. Di solito, a Fiumicino torno indietro.

Per colpa di Asia, il mio primo amore non corrisposto, ho un rapporto difficile con le donne. Asia mi fece innamorare come non mai, fino al punto di umiliarmi davanti a tutti gli altri bambini con un netto ma indimenticabile “ti sei immaginato tutto”. Da allora, ogniqualvolta devo parlare con una rappresentante del sesso opposto, le mie frasi iniziano con la lettera “o”. So che non ha senso, ma a voi chi vi sta a guardare le fobie, i tic, le fissazioni? La mia ultima ragazza, Patrizia, ma preferiva farsi chiamare Sohnsiray, era latto-ovo-vegetariana. Non calpestava le aiuole e non fischiava perchè farlo poteva stranire le tortore che migravano verso sud. Portava scarpe di lino e capi di lana indiana anche d'estate. Lavava i suoi capelli con acqua tiepida e the nero. Al mattino si purificava con un cucchiaio di olio crudo e il saluto al sole. Lavava i denti col pompelmo. Ci spostavamo a piedi o in bici, anche quella volta che comprammo un divano equo e solidale con l'anima in quercia.
Mi ha lasciato per Enzo, il figlio del macellaio di Corso Etruria, un tipo con la Kawasaki Z750 che fa domicilio nel Punto Snai e vive, bene, con un proiettile conficcato tra 2 costole dal 2005. Non ha capelli né sensi di colpa. Quando c’è stato l’indulto ha festeggiato mangiando una lucertola viva.

Al momento sono single, ed occupo una stanza, in una casa piena di universitari di cui non ho ancora memorizzato il nome, ma riesco a distinguerli grazie ai loro tatuaggi: ieri tribale inesistente ha litigato con geisha sovrappeso, che gli aveva rotto il joypad della play. Ci ha pensato farfalle negre sul collo a separarli, prima che il chilum di data di nascita illogica, in numeri romani mettesse al tappeto i presenti, compreso Xamamina, il mio gatto, ed il suo padrone.

Ieri sera ho adocchiato una tipa che lavora al distributore Q8 all'angolo, ma non credo di avere il coraggio di affrontare da capo le dinamiche propedeutiche ad una corretta alimentazione, figurarsi alla semplice relazione sentimentale. Chissà.

venerdì 14 gennaio 2011

Le bugie hanno i capelli corti



Per l’amore di Dio, seguite alla lettera i consigli di Thomas Taw, l’esperto di capelli danneggiati. Thomas, dall’alto della sua lunga gavetta dedicata alla ricerca materiale di ciuffi sfibrati ed annodati, lasciati a riposare tra una gomma dura ed un nocciolo di oliva, nei posacenere delle case di mezzo mondo, consiglia di non usare elastici e cerchietti e preferire un pettine a denti larghi. Thomas la sa lunga.

Personalmente, non uso il pettine dal giorno della mia prima comunione. Mi fotografarono parecchio quel giorno, sempre contro sole, e mantengo un’espressione che non cela il mio desiderio di evitare di passare i prossimi anni a dover fronteggiare lesioni di retina e cristallino. Non volevo fare un dispiacere al fotografo, un parente venuto da lontano che aveva appena acquistato una reflex autofocus da 1 kg, che portava orgogliosamente al collo, in compagnia di un inconfondibile borsello in vacchetta graffiato da usura, fibbie metalliche e unghie desiderose di muratti.
“Ti dà fastidio il sole, ometto?”
“No, no, zio. Fa’ pure” dissi io, lacrimando vistosamente e confondendo i riflessi scomposti dei raggi solari per aureole diffuse su tutta la parentela festante. Dissi una bugia. Il giorno della prima comunione. Forse per questo la sto pagando. Una mezza calzetta di 9 anni, vestita da cameriere dell’autogrill Montefeltro km.133, ancora lontano dal suo sviluppo e quindi da sicure pratiche di autogodimento, si permette il lusso di violare l’ottavo comandamento? Si permise. Fu per espiare tale colpa che, evidentemente, mi regalarono per lo più braccialetti d’argento e croci d’oro, neanche dovessi fare casting per un film di Kusturica. La mia voglia di Commodore 64 morì in quel locale stile Studio 54, che i miei avevano affittato ed addobbato a festa di paese.

Allora vaffanculo. Ho continuato a dirle, le bugie. Le bugie sono tue, ancor più degli amori. Una bugia è per sempre, ed è un segreto che solo tu possiedi. Puoi utilizzarla quando vuoi, e ti dà un’emozione che null’altro ti concede. Sia chiaro, sono un bugiardo amateur. Scappa qualcosa ogni tanto, ma è più per allenamento che per altro. E’ una forma di autodifesa che non provoca neanche più sensi di colpa. Lo faccio e basta. Posso smettere quando voglio, ma non voglio.

Maurizio, invece, ci  viveva con le bugie. Lui era proprio un professionista. Riusciva a tenere in piedi 3 storie di sesso ed una ufficiale, con maestrìa unica. Aveva un particolare abilità nel non riuscire mai a dire no, a nessuno. Prendeva 6 appuntamenti in un’area di 90 ettari tra le 21 e le 21,30. Accumulava debiti con la tipica nonchalance di chi non sa quanto faccia male un cartone in pieno setto nasale. La mamma lo credeva in Aula Magna, e lui se ne stava  steso, sul mio divano, a strapparsi la punta dell'alluce mentre G. rullava il cannone  più grande d'europa. La fidanzata lo attendeva sotto la pioggia, zainetto invicta fradicio e trucco gocciolante, e lui si trombava la ragazza di G. facendo leva sulla sua prossima adozione di 3 bambini di Chernobyl, mentre scorrevano le immagini di Delicatessen. Se ti diceva che stava parcheggiando, era in vasca. Snocciolava date e nomi senza esitazioni. Diceva di conoscere 4 lingue. Sosteneva di far parte di un sottogruppo del sisde dedicato ai movimenti studenteschi ed ai tombaroli. Ho pagato caro a lui un paio di scarpe introvabili, che purtroppo non ho mai indossato.
Un pomeriggio autunnale, durante un normale round di invenzioni carpiate, qualcosa andò storto. Forse una soffiata, forse un tentativo di fare il grande colpo, forse uno spinello troppo carico, e il giocattolo si ruppe. Maurizio fuse. E vennero a galla anni di trame lynchiane, scandali a corte, diari segreti, cambi d’abito, esami fasulli, falsi d’autore. La gente ne parla ancora, ma lui si è ritirato a vita privata. La cosa gli esplose tra le mani senza che potesse farci nulla. Di fronte alle proprie responsabilità, l’ennesima bugia si sarebbe rivelata l’ammissione di colpa più grande. Ed allora decise di avere un ictus. Non capimmo mai cosa e come accadde. Chi c’era, era troppo incazzato per poter credere. Un embolo decise che era giunto il momento di staccare, per una decina di minuti, l’afflusso di sangue al cervello. Quel cervello sceneggiatore di peplum rusticani, ove ritardi per una diarrea si trasformavano in epiche ricostruzioni vittoriane con colpi di scena a ripetizione, quel cervello rimase all’asciutto per un po’. Da quel pomeriggio, Maurizio non parla più. 
Ma io non gli credo. Giuro.

mercoledì 12 gennaio 2011

Lotto volando


Tra le 11,20 e le 11,35 le mie due colleghe hanno parlato ininterrottamente di depilazione pubica femminile. Come se io non esistessi. Puntano decisamente all’incremento della mia asessualità, sfoderando particolari minimi sull'arte di desfoliare l'universo mondo pilifero che circonda il Monte di Venere.  Dopo si è passati alle virtù dell'Acqua di Sirmione, sempre in tema. Per finire alla dispareunia. Non ce la faccio. 

E allora stacco, come HJS nella fabbrica del sidro. Mi apro il mio bel varco, accompagnato dall'Uomo che Vendette il Mondo, per questa mattina, e mi ritrovo sulle montagne russe.
Si, sono davvero sulle montagne russe. Quando sto salendo su, e si sente la catena che rallenta, cla-cla-cla, e sei al massimo dell'adrenalina, ecco che si riscende giù, in maniera repentina, col cuore che ti sale in gola, gli occhi chiusi per la troppa paura, la pelle e il coraggio che si atrofizzano, la vita che passa davanti. Ti riprendi, sei al massimo, aspetti di raggiungere nuovamente la cima, ma invece ti accodi al serpentone che si ferma sotto la galleria. Devi scendere, tocca ad altri. Un attimo prima eri il re del mondo, un attimo dopo sei uno stronzo che cammina a testa bassa, neanche schivando le spallate dei padri con le tasche gonfie di quattrini, i bambini moncler, le mamme fornarina. Non ti riesce neanche il calcio alla lattina.

Il fatto è che non è facile pensare di voltare pagina. Per uno che ha avuto problemi ad imparare l'aspetto delle carte piacentine, perchè per lui esistevano solo queste. Per uno che ha dovuto osservare troppi piatti sporchi in silenzio, seduto a tavola, puntando i rebbi sul bordo sbreccato di porcellana, a scrivere il nome di tutti, degli ex amici, di quelli che ti guardano con compassione, di quelli che ti rispettano, di chi non ti ha mai abbandonato, di chi non mette più acqua ad una pianta a cui non è rimasta che una caricatura di tronco brunito. Ho dovuto inventarmi un altro me per quei lunghi attimi interminabili, riflettendo a lungo su come si facciano 800 controlli giornalieri per l'acqua minerale. Ho dovuto capire da solo il principio che regola il baricentro delle forchette tenute insieme dallo stuzzicadenti. Ho imparato a memoria la filastrocca gfmamglasond. Chi la conosce ha la mia stessa mappatura a matassa.
E' passato un bel po' tempo da quando sulle montagne russe non ci mettevo piede, e la mia carrozza proseguiva a velocità standard sulle sue rotaie. Si, lo so che la locomotiva ha la strada segnata, mentre il bufalo può scartare di lato e cadere. Ma io sul treno ci stavo bene. Era un po' di tempo fa. Il tg3 dava la sua ultima notizia divertente. Vincenzo Mollica parlava male di qualcuno in un servizio sul primo canale. Gli studenti che protestavano contro il governo per strada erano di più di quelli che li guardavano dai marciapiedi. L'Esarca era già un mio amico. Si, è stato tanto tempo fa.

domenica 9 gennaio 2011

Certi rapporti sono poco saldi


Pronto, chi parla?...si….se dura pochi minuti però, perché avrei un impegno familiare….prego…
Se vincessi 50 milioni di euro al superenalotto?.......mah, me ne andrei via…sì, lontano…lontanissimo.
Bella vita? Certo. Beneficenza? No, assolutamente. E non verrei certo a dirlo a voi. Ma comunque no….si figuri…vestiti, blabla, scarpe, spa, blabla, viaggi, blabla, atolli…….e poi regalerei ad una persona una palafitta con tutti i comfort…..certo, sul mare, e dove sennò, sul Po?.......con riserva di nero d’avola e dolcetto…..divani comodi……...e adsl, ça va sans dire. Tutto qui……buonasera.

L’impegno del tardo pomeriggio della prima domenica dei saldi non me lo volevo perdere. E la nebbia che avvolgeva le strade rendeva ancora più invitante la presumibile odissea che stavamo per affrontare.
La gente si trasfigura in tempo di saldi. Desiderose della vista laterale, le donne si muovono con spalle forti, alla ricerca del leggins perduto. Scavano nei cestoni in cerca del capo in rosa antico, vero must fool/winter 2011, ma trovano solo obbrobriosi fuseaux verde petrolio o scombinati completini nontiscordardime. I mariti imbracciano i loro giubbini con lo sguardo sconfitto di chi è arrivato quarto. In un attimo i baffi si allungano, le sigarette finiscono, le dignità si calpestano. Le commesse ti odiano. Sgattaiolano tra uno stand e l’altro scrutandoti come unto ad untore. Scappano ad ogni domanda, riappallottolando la pashmina pitonata in acrilico a 12 ottani che l’obesa in jeans stretti si è trascinata per tutto il locale. Alcuni provano a provare. Ci si azzarda. Il Natale ha fatto il suo sporco lavoro sul girovita, e lo slimfit è una barbara ghigliottina. La camicia rimarrà per sempre nel camerino. E noi continueremo a girare.

Poi fa la sua comparsa una nuova specie sociale multipla. Essa è composta da madre/padre e la figliuola al fianco con età compresa tra i 9 e i 13 anni. La piccola, hellokittata per l’occorrenza manco fosse alla Festa del Cosplayer di Osaka, tiene stretto nella mano, parallelamente al pavimento cerato del centro commerciale, il suo cellulare. In un attimo ti accorgi che, come lei, altre 500 teenager fanno la stessa, medesima, cosa. Scrivono, ridono da sole, distribuiscono ditate allo schermo oleoso, si allontanano dalla madre che le tira per lo sciarpone e le riporta a sé. Sono centinaia. George A. Romero ne sarebbe entusiasta. Ciondolano, sghignazzano, pigiano, sbattono agli angoli smussati delle corsie e ritornano sulla retta via per un attimo, come quelle automobiline che ci regalavano da piccoli.

In attesa che il baby club ci restituisca ciò che resta della Furia, il meritato colpo di scena. Lei avrà una ventina d’anni. Molto bella, capelli scuri sciolti. Veste bene, con un paio di Tiger ai piedi. Lui, altissimo, di anni ne avrà 25, berretto Nike di lato, tracolla AStyle penzolante, tuta. Lei gli dice che è stanca, vuole tornare a casa. Lui deve solo controllare una cosa in quel negozio. Il negozio di videogame, sconto 25%. Lei lo aspetta fuori 15 minuti. Lui le butta un occhio di tanto in tanto, ma è più interessato ad un game in particolare. Lo stringe tra le mani, se lo passa, legge e rilegge il prezzo una dozzina di volte. Io sono un po’ defilato e non riesco a decifrare il titolo. Ma per lui deve essere e molto importante. Ce ne sono incolonnate tre o quattro confezioni uguali. Lui le controlla tutte, per vedere se magari c’è un prezzo inferiore. No, non c’è. Non li fotti questi bastardi di commercianti di videogame. Il vociare degli adolescenti in filam per una prova al Kinect copre gli sbuffi di quel treno a vapore chiamato Fidanzata in Attesa.
Lui indugia ancora un po’. Si getta su un’altra colonna, sperando che per gelosia, l’inchiostro si possa liquefare mutando qualche cifra dal cartellino adesivo. Ricontrolla. Niente.
Intanto lei se ne è andata, blaterando qualcosa. E per giunta portando tra le mani il giubbotto dell’indeciso in tuta. Lui non la vede. Cammina avanti e indietro.
Alla fine, decide. Compra. Esce e cerca, prende il telefono dalla tracolla e spiega, si piega.

Stasera, niente sesso, mi sa. Ma vuoi mettere con una bella partita a Heavy Rain – Move edition?