martedì 26 luglio 2011

Infierire in ferie


A ridosso delle ferie tendo ad esprimere desideri. Non ho mai capito perchè lo faccia. Tant'è.

C'è questa sorta di vischio estivo, sotto al quale mi bacio il braccio. E desidero. 

Vorrei salire su un autobus profumato
vorrei bere un mojito vero
vorrei gestire un asilo nido dove è vietato l'accesso ai bambini
vorrei vedere un telegiornale senza notizie
vorrei ascoltare un quadro
vorrei che mettessero la freccia
vorrei non assistere ad un concerto di gruppi cover
vorrei rincontrare la persona del sogno di stanotte
vorrei sapermi tuffare
vorrei che la tastiera del pc mi rispettasse
vorrei saper cantare Hyperballad
vorrei allacciarmi le scarpe a parole
vorrei revisionare il suv di quello che fuma il sigaro all'ombrellone vicino al mio

vorrei che la notte di San Lorenzo il cielo fosse nuvoloso

lunedì 18 luglio 2011

Una settimana d'addio


(di Maurizio ne parlo in questo post del 14 gennaio. Un bravo ragazzo. Amante dell’assurdo e dei coup de théâtre. Abbiamo passato insieme gli anni della profonda adolescenza. Giovedì ha deciso che questo mondo gli stava troppo stretto. Più della corda che ha legato attorno al suo collo. Questa lettera non gli arriverà mai)


Oh Mau,
ti sarebbe piaciuta la settimana che ho appena passato. A te, che saltavi dai Deep Purple a Piccola Katy, senza soluzione di continuità, sarebbe andato a genio quello che mi è capitato. Lo so che ora non puoi ascoltarmi, ma stammi a sentire. Ti ho mai parlato di quel mio superiore ciccione, quello che un giorno mi chiamò a rapporto nella sua minuta stanzona affrescata mensilmente per riempirmi d’insulti? Non avevo mai ceduto ai suoi ricatti. Si, lo sai che non sono mai stato un cuor di leone, ma alcune questioni di principio le ho sempre, ostinatamente, portate avanti. Alle volte, anche sbattendo contro i muri. Di pietra, di gomma. Truccò due carte, s’inventò una finta telefonata, e mi denunciò. Lo sai, io non dormivo per un bacio mai avuto o per una canna di fumo buono. Figurati con un avviso di garanzia sul groppone. L’avvocato mi diceva che la situazione era molto ingarbugliata, Mau, ma io me ne fottevo. Volevo arrivare fino in fondo. Intanto i mesi sono passati. No, non ti ho chiamato mai in questi mesi. Sapevo che non ne volevi sapere di noi. Mi bastava saperti in piedi, a giocare coi tuoi cani. A suonare quella batteria montata male. A svegliarti quando volevi tu. Nel frattempo sono arrivato all’udienza preliminare. Di solito in questi casi, chi giudica fa da passafogli per il tribunale. “Che se ne occupino loro. Chi sarà mai ‘sto disgraziato? Non abbiamo tempo di leggerci le carte”. Invece, Mau, qualcuno le carte se l’è lette. Una per una. Il ciccione stava sicuramente nel suo ufficio su misura a masticare a bocca aperta un cannolo, cercando di copiaincollare da qualche scribacchino del web una relazione strapagata. Beatamente, come fanno i potenti, i protetti, che vagano da una poltrona ad una più prestigiosa, tra benefit e superincentivi. Il GUP ha smazzato il plico di fogli, ha guardato in faccia il mio avvocato e mi ha assolto. Assolto. Che dolce parola, Mau. Proscioglimento pieno. Faceva caldo, quando mi ha chiamato l’avvocato.
Faceva più caldo quando mi ha chiamato Claudio. Mi ha detto di te. Avevi deciso di dire basta. Non ci hai voluto far sapere nulla. Il prete ha letto l’omelia, quella standard. Il tuo nome poteva essere sostituito da tanti altri nomi, come i numeretti della segreteria telefonica. Non ha accennato alla sofferenza di chi decide di chiudere le finestre per non vedere il sole. Di quelli che non ascoltano perchè non c’è più nulla da sentire. E che parlano da soli, perché sono i soli a capirsi. No. Il prete non l’ha detto. Il prete non sapeva neanche chi eri. Noi si. In fondo alla sala, noi si.
Ti sarebbe piaciuta la mia settimana, Mau. Poi ho presentato il libro di un amico. Avevo davanti una platea di ottuagenari ed un tipo con un dobermann. Con noi sul palco, c’era una professoressa ed una diva del burlesque. Nessuno era stato presentato col proprio nome. Sotto falsa identità ci era stata affibbiata una professione inventata. Ho intervistato l’autore parlando di Benedetta Parodi e Birkenstock. Nessuno capiva cosa dicessimo. Eravamo una scorreggia durante l’Adagio di Albinoni. In prima fila, ad applaudire un’intervista irreale, Sandra Milo. La guardavo, come si guardano le macchie d’umido sui muri.  
Ti sarebbe piaciuta la mia settimana, Mau.

martedì 12 luglio 2011

Non sono io, è il caldo


La parola del giorno è certezza: già il Corano parla di un luogo chiamato La Città della Certezza. Qui, “ogni filo d'erba racchiude i misteri d'una saggezza imperscrutabile e sopra ogni roseto miriadi di usignoli, in estasi benedetta, innalzano le loro melodie.“ Beati loro.
A me bastano certezze ben più accessibili.
  1. trovare le ciabatte ai piedi del letto al mattino
  2. avere abbastanza carburante nel mezzo di trasporto utile a muovermi dal punto a. al punto b.
  3. la mia scorta di antistaminici
  4. connessione alla rete locale
  5. ricordarmi pin, password e codici
Lo dico perchè nella vita alcune certezze granitiche si sono dissolte e sbriciolate, e nessuno, a tutt'oggi, è in grado di fornirmi un'esaustiva spiegazione.
No, non parlo dell'essenza dell'essere. Neanche della legge morale dentro di me. Neanche dei noumeni. Niente sensi della vita. Nessun insegnamento. Astenersi perditempo. Parlo delle cose serie, che col caldo che fa da queste parti (all'incirca tra i Comuni di Predoi e Linosa), c'è poco da scherzare.
Io ne avevo due, di certezze: la prima è che la lavatrice vivesse di più con Calfort. Poi, d'un tratto, alcuni anni fa, distrattamente, mentre sorseggiavo un chinotto e mangiavo dei pistacchi, l'omone travestito da tecnico idraulico, rimbrottando la casalinga insoddisfatta, sventola la serpentina calcificata per aria e consiglia Calgon. Cosa consigli, obeso professionista che non mi rilasci fattura neanche se vesto la lavatrice con la divisa delle fiamme gialle? Fino a ieri mi decantavi le doti del Calfort. E oggi? Cos'è cambiato? Cos'è che non mi avete detto? Bastardi.
Calgon. C'ho messo 5 anni ad uscirne.

È colpa della globalizzazione, mi dice la scimmia in fiamme sulla spalla. Ma và.

Ero tranquillo, l'altro giorno. Sorseggiavo il mio chinotto (si, abbiamo una riserva abbastanza corposa, 'azzo v'importa?) e sgranocchiavo dei lupini. L'aria era ferma. Non un rivolo di fresco. Non una nuvoletta. Boccheggiavo. Ma ero abbastanza disteso. Anche fisicamente. Torso nudo su poltrona di pelle sintetica.
Forse la tv non era neanche accesa. Ad ogni modo sullo schermo compare un tipo atletico, che dopo un po' accusa una contusione. Una pomata lo aiuta. Un grosso tir si allontana dal ferito. Sulla fiancata riporta la scritta “Lasoactive”. Lasoactive? E ci aggiungono anche il jingle: ta-ta-ta-ta-ta-ta Lasoactive. Ma come? Ma non era Lasonil? Non me l'immagino mia madre che mi dice “Mettici un po' di Lasoactive”. 
Ci stanno nascondendo qualcosa. Non abbassate la guardia. O almeno accendetemi il condizionatore, vi prego.

martedì 5 luglio 2011

L'uomo sonda



La sonda spaziale Pioneer 10, è stata lanciata in orbita dagli USA nel 1972. Dal 1983 è stato il primo oggetto costruito dall'uomo a oltrepassare i confini del sistema solare. Nonostante abbia smesso di lavorare nel 1997 (nel mondo delle sonde, evidentemente, si va in pensione a 25 anni), Pioneer 10 ha continuato a trasmettere dati fino al 2003. Oggi si trova a circa 13 miliardi di km da noi. E', sostanzialmente, l'oggetto creato dall'uomo:
-                    più distante in assoluto dalla terra;
-                    unico a sopravvivere all'uomo stesso;
-                    che vagherà in eterno nello spazio infinito, fino a quando qualcuno non se ne impossesserà e lo ridurrà a brandelli perchè deve sfogarsi.
Pioneer 10, in questo momento preciso, è in viaggio. Sta andando verso la stella Aldebaran, pare. E poi proseguirà oltre, e oltre. Per andare dove non si sa.

Non so a voi, ma a me l'idea di qualcosa di eterno e costante (la sonda si muove a velocità di crociera) mette i brividi. Non ci dormo la notte.
Allora vi parlerò di Matteo, il mio giornalaio.
Ad onor del vero, non essendo abitudinario, non ho mai avuto un edicolante di fiducia nè un macellaio del cuore che mi tiene da parte i pezzi migliori. Ma da Matteo ci andavo spesso. Col suo imbarazzante pizzetto brizzolato poggiato su di un viso sbilenco, spuntava fuori da quella cornice di calendari osè e raccolte di macinini e trattori del terzo reich, sorridente e giulivo. Matteo era gentile ed affabile. Troppo, per essere uno che deve cercare di appiopparti, insieme all'economico quotidiano, almeno 2 riviste di gossip, nippo-figurine plastificate per il bambino e, perchè no, il dvd “Orgia on my mind” in confezione de luxe. Per farlo felice, talvolta, mi concedevo una Settimana Enigmistica in più. E Matteo sorrideva.
Mi aveva confidato che prima guidava i pullman. Metteva il berretto d'ordinanza e dalla mattina presto caricava gente di tutte le età. Era uno di quelli che avrebbe volentieri sostituito la scritta “Non si parla al conducente” con un più democratico “Dite, dite”. Poi aveva smesso, ma non sapevo il perchè. Gli autisti sono malinconici. Si salutano solo tra di loro, quando si incrociano. Lui non lo era. Forse per questo aveva smesso. Troppo allegro per i rigidi canoni della categoria.
Matteo non aveva accenti. Parlava un italiano d'altri tempi. Diceva “ne ho ben donde” e “motoretta”. Aveva acquistato casa a due passi dall'edicola, e poco dopo l'alba scendeva, disimballava i pacchi di giornali freschi di piombo, accendeva una Futura, dava un'occhiata fugace al Corriere dello Sport, poi al lavoro.
Un giorno, qualcuno citofonò a casa di Matteo. Rispose la figlia. Le dissero che all'edicola non c'era nessuno. La figlia scese di corsa. Il gabbiotto era vuoto. Allora corse al bar, per vedere se per caso un'impellenza fisiologica avesse costretto il padre, improvvisamente. Niente. Erano le sette di mattina. Non sono molti i passanti, a quell'ora. Il cellulare era rimasto nell'edicola. Anche gli occhiali da vista. Non poteva essere andato lontano.
La figlia avvisò la mamma. Furono chiamate le forze dell'ordine. Allertato il Pronto Soccorso. Avvisate farmacie, bar, parrocchie.
Di Matteo nessuna traccia. La Polizia Municipale mise in giro tre pattuglie, tolte al sonnacchioso scribacchiare multe di una piccola città di provincia.
Qualcuno corse al fiume. Altri visitarono la cava abbandonata. A metà pomeriggio squillò il telefono del comandante dei vigili. Un uomo di mezza età era stato avvistato, due paesini più in là, in una strada di campagna. Camminava dritto. Senza meta. E senza scarpe. A chi gli chiedeva dove stesse andando, rispondeva “Verso casa”, ma senza girare il viso. Continuava a camminare, a testa alta. Aveva fatto più di venti chilometri, coi piedi sanguinanti. E ne avrebbe fatti altrettanti, se non lo avessero fermato. Per andare dove non si sa.